domenica 9 dicembre 2007

Medico e paziente: dallo scontro all'incontro

Due solitudini a confronto: medico e paziente.
Diverse sono le voci autorevoli – anche dei vertici delle istituzioni dello Stato - che si levano per ricordare che il paziente deve essere ascoltato, che il compito principale dei suoi interlocutori è quello di farlo sentire accolto e di capirlo. Si tratta di inviti ampiamente condivisibili, in quanto sottolineano l’importanza della relazione tra medico e paziente ed evidenziano come, all’interno della sequenza che porta dalla diagnosi alla cura, centrale sia la persona del malato. Tuttavia, se si fa riferimento alla dimensione relazionale, vanno tenuti nella stessa considerazione entrambi i poli della relazione.
Da cartella clinica a persona.
Spesso il paziente racconta di essersi sentito trattare da medici e infermieri come una pratica da sbrigare, come un numero su un registro, come una cartella clinica zeppa di dati, ma priva di sensazioni e di bisogni. Quando vengono riportate tali esperienze, a chi le ascolta è immediatamente evidente come gli aspetti centrali del vissuto narrato dal paziente siano la rabbia e l’umiliazione per essersi sentito trattare come un bambino incompetente e seccante. Fondamentalmente ciò che viene lamentato è il mancato ascolto. Il paziente sente che la sua individualità non è stata rispettata, che la sua identità è stata annullata nell’indifferenza dimostrata dalle figure col camice incrociate nei corridoi dell’ospedale, nell’eccessiva rapidità delle visite e, più in generale, nel nervosismo degli operatori delle strutture sovraffollate. In questa sensazione di annullamento, gioca un ruolo centrale il mancato riconoscimento del suo essere un soggetto sensibile. Affermare che si è stati trattati come un numero significa denunciare che l’altro ci ha considerati come entità prive di emozioni, oltre che di pensieri e di opinioni, di progetti e di speranze.
Tali vissuti vanno ad aumentare quella solitudine con la quale tutti, inevitabilmente, ci confrontiamo, quando siamo toccati dalla malattia. Si tratta di una terribile percezione di isolamento: la malattia ponendoci brutalmente davanti, non soltanto alla nostra ineluttabile mortalità, ma anche all’imprevedibilità del futuro un attimo prima che sia presente, rende palese l’impossibilità di eludere i nostri timori più profondi. Siamo soli nell’angoscia, siamo soli nel dolore che affligge il nostro corpo, siamo soli nel confortare la preoccupazione che attanaglia i nostri cari e in mille altre componenti emotive che entrano in gioco allorché la malattia c’impone la sua sgradita presenza. Fronteggiare consapevolmente tale isolamento, gestirlo con lucidità di pensiero e autocontrollo non è facile. Da qui, dalle riflessioni su tali componenti inestricabilmente legate alla patologia organica, derivano le considerazioni, oggi largamente condivise, sulla necessità dell’ascolto. Si sottolinea, dunque, che se una persona, ad esempio, soffre per una malattia di cuore, è la persona ad essere malata, non solo il cuore, e che per tale individuo è impossibile scindere il dolore fisico da quello mentale. Viene così posto in luce come il compito delle strutture, e in particolare quello di medici e infermieri, sia anche quello di cercare di comprendere e di fornire sostegno e presenza. Si parla allora di una qualità “umana”, quale imprescindibile requisito della validità ed efficacia del servizio. In breve, si tratta di sviluppare quella comprensione empatica che è centrale nella cura (o, meglio ancora, nel prendersi cura). Riconoscere il disagio emotivo, aiutare il paziente a confrontarsi con esso, accompagnandolo in questo doloroso cammino, vuol dire non lasciarlo solo. Consci dell’inutilità delle rassicurazioni sganciate dall’ascolto - che servono più a liquidare il problema per chi le pronuncia che a pacificare chi le riceve - medici e infermieri possono tentare di contenere le angosce del paziente, innanzitutto riconoscendogliele come legittime. Essi sanno quanto è spaventosa, imbarazzante e sconcertante per il paziente la sua esperienza. Sanno che questi è confuso da una, per lui incomprensibile, terminologia tecnica che descrive i suoi organi, le loro funzioni e le loro patologie, che è disorientato dall’ambiente ospedaliero – anonimo, regolato da norme sconosciute e spesso carente di servizi. Sanno ancora che è stato costretto a rinunciare a pudori e certezze quotidiane e ad affidare, il proprio corpo, se stesso, ad altri, autorizzandoli - nella speranza che lo guariscano e lo salvino - a compiere su di lui atti che al di fuori di quel contesto, costituirebbero reati gravi. Medici e infermieri sanno anche come dietro le richieste spesso assurde dei pazienti si agitino disperazione e rabbia. Rabbia per un corpo che non obbedisce, che non funziona. Sono consapevoli di tutto ciò, ma non sempre impiegano tale conoscenza nella relazione con il malato, non sempre lo ascoltano. Ecco allora che egli vive un senso di frustrazione e sente di essere stato infantilizzato, come se le sue esigenze fossero solo assurdi capricci, come se il suo punto di vista fosse quello elementare di un bambino. Con livelli variabili di consapevolezza, ciò di cui sente il bisogno è il riconoscimento della legittimità della propria angoscia, della naturalezza del suo essere più recettivo ai segnali negativi che a quelli positivi.
Molti sono coloro che, riflettendo su tali temi, e in modo più approfondito di quanto non si sia fatto qui, giungono ad affermare l’essenzialità dell’ascolto. E ascoltare empaticamente l’altro significa non eludere la sua sofferenza, ma aiutarlo ad affrontarla, comunicandogli che non è solo, che si è disponibili a stare nel suo ‘irrazionale’, senza censurarlo né giudicarlo.
Stare dentro il disagio altrui, tuttavia, è difficile quasi quanto saper sostare nel proprio, e ciò rende l’avvicinamento alla dimensione emotiva un processo faticoso. E queste difficoltà si presentano amplificate in quei contesti istituzionalmente deputati a prendersi cura del dolore nelle sue varie forme.
La persona sotto il camice.
Avviene quotidianamente, nel mondo, che i medici vengano chiamati a rispondere davanti ad organi giurisdizionali di cattivo comportamento nei confronti del paziente e si trovino a dover spiegare le loro scelte terapeutiche, pur necessariamente legate alla natura sempre un po’ arbitraria della valutazione clinica (per quanto scientificamente fondata possa essere). Ciò conduce talvolta a rilevare inadempienze o altri errori imputabili alla sua responsabilità professionale, però l’avvio di tali procedimenti spesso rappresenta anche un’occasione per il paziente, per i parenti e, indirettamente, anche per il pubblico di esorcizzare la precarietà della vita, identificando un soggetto da utilizzare come capro espiatorio e attribuendogli le origini delle proprie disgrazie. Costituisce una potente rassicurazione immaginare, più o meno consapevolmente, che la malattia, il dolore o la morte derivino, anziché dall’ineluttabile fragilità dell’uomo, dal medico. Certo, l’illusione di fondo è quella che i mali dell’uomo possano essere dominati dall’uomo stesso, il ché appunto è un’illusione. Tuttavia, da sempre l’uomo aspira fantasticamente al controllo sulla propria sorte e non si vede perché il malato debba essere meno umano o più obiettivo degli altri individui, provvisoriamente sani. E comunque tutto ciò non significa che il paziente sia un piantagrane delirante e che non abbia motivi per adirarsi né diritto di esprimere il suo punto di vista. E, a dargli retta, come si è detto più sopra, di argomenti solidi da produrre ne ha diversi. Ma anche le ragioni del suo interlocutore non sono meno vere o meno consistenti. Soprattutto, sono vere per lui/lei dal momento che le vive sulla propria pelle tutti i giorni e ne trascina il peso. Il medico, infatti, così come l’infermiere, sa bene che per il malato egli è il demiurgo, che la fiducia depositata nella scienza medica dal malato è assoluta e per molti versi irrealistica. Quale incarnazione di quella scienza, deformata in fede religiosa dalle angosce e dai bisogni del paziente, egli deve misurarsi con i limiti di un sapere tecnico i cui straordinari successi non bastano a dare risposte di assoluta certezza in tutti i casi. Non passa giorno che il medico non incroci gli sguardi dubbiosi, supplichevoli e impauriti dei pazienti; costretto a manipolare corpi sofferenti, a volte a ferirli per poterli curare, sa quanto possa rivelarsi inevitabilmente oltraggiosa la sua opera. Interviene con mezzi “violenti” per ristabilire la fisiologia soppiantata dalla patologia, per ridare speranza dove fa capolino il rischio della morte. Conosce il disagio e l’imbarazzo altrui nel sacrificare riservatezza e pudore. Per il paziente la malattia è un’esperienza eccezionale, per il medico è quotidiana. Come un disco che gira incessantemente, sente di continuo il lamento di persone sofferenti, ma deve arrivare alla fine della giornata, conservando insieme alla serenità di giudizio e all’efficacia del proprio occhio clinico, anche un minimo di tranquillità d’animo. Gli accade di chiedersi se poteva fare di più, ma, riflettendo, realizza di aver adempiuto il proprio dovere: ha affrontato la sintomatologia del malato e se n’è fatto carico, ha verificato la presenza di una patologia, l’ha diagnosticata e ha rassicurato il paziente (non sempre purtroppo la realtà gli ha consentito di farlo). Sì, forse, non si è concentrato sul perché quell’individuo era, ad esempio, così preoccupato, ma lui è un medico, non uno psicologo, e tale comprensione era irrilevante ai fini della diagnosi e della terapia. E, d'altra parte, quanti pazienti ha visitato? Su quanti organismi è intervenuto? Quanti sono coloro che implicitamente gli hanno scaricato addosso il fardello delle loro angosce? Perché quanti criticano la sua categoria professionale non si rendano conto di tutto ciò? E’ facile fare della retorica, parlare di empatia, di sensibilità, ma lui, il medico, vive nella realtà e lì il gioco è molto diverso, le regole sono altre. Nella realtà i tempi sono strettissimi, le variabili da considerare infinite e le decisioni spesso devono essere rapide. Il mondo reale è fatto di persone che gli pongono assurdi quesiti, che nutrono aspettative irrealistiche e non vogliono sentire ragioni; è popolato di malati con la fretta di guarire, come se il loro organismo fosse il motore di un’automobile e il medico un meccanico che sostituisce valvole e candele, per cui se il motore non riparte e se non gira subito al massimo la colpa è del medico-meccanico e non del fatto che ci sono dei tempi indispensabili per il recupero, tempi che non sempre si possono stabilire con matematica precisione. Nella realtà le conoscenze e le competenze acquisite sia sul piano diagnostico sia sul piano terapeutico consentono successi impossibili solo alcuni anni addietro, ma non permettono miracoli; e con questo limite il medico ha a che fare ogni volta che reca una brutta notizia. Non essendo solo un camice, però, deve tutelarsi da tutto questo dolore, da tale amarezza. Ma di ciò non può far parola con il paziente, che è già troppo pieno di emozioni per avere un minimo di solidarietà verso il suo auspicato salvatore, né può raccontare la propria realtà esistenziale a coloro che sottopongono a continue polemiche l’operato suo e dei colleghi, e li accusano di freddezza, riduzionismo meccanicistico e altro ancora. Non gli resta, allora, che tirare avanti, magari accogliere il lato costruttivo di talune critiche, riconoscerne gli elementi di fondatezza e soffermarsi maggiormente sugli aspetti relazionali dell’incontro con il paziente. Le sue esigenze, le sue opinioni, i suoi vissuti restano però inespressi o, in ogni caso, sconosciuti ai più. Non trovano, quindi, quel riconoscimento che pure meritano.
La mediazione: un luogo per trasformare lo scontro in confronto.
Accade con una certa frequenza che la relazione tra medico e paziente si trasformi in conflitto e che tale conflitto assuma i caratteri di contenzioso giudiziario. Pare, infatti, che le azioni giudiziarie esperite contro medici e strutture per malpractice si accumulino incessantemente, che le richieste di risarcimento relative a presunte patologie iatrogene assumano proporzioni impressionanti e che crescano parallelamente le spese assicurative. Si moltiplicano allora le preziose elaborazioni della dottrina e aumenta la giurisprudenza sulla responsabilità professionale medica. Si sviluppano anche rilevanti valutazioni su efficienza, capienza e qualità delle strutture, irrinunciabili in una prospettiva di miglioramento. Ciò che dal dibattito resta per lo più escluso, ed è invece meritevole di attenzione, è quella matassa spesso complessa di vissuti e aspettative che spesso sottostà alle costose (non solo in termini economici) vicende conflittuali nelle quali figurano come parti contrapposte medici e i pazienti. Tra le righe delle documentazioni legali, utilizzate quali armi di offesa e difesa nell’ambito dei contenziosi giudiziari, nelle perizie e nelle contro-perizie, vi sono, infatti, due realtà esistenziali a confronto, la cui espressione è impedita dalle rigidità del rito processuale, strutturato com’è sulla rilevazione della prova, sull’accertamento del fatto, sull’attribuzione della colpa o sulla dichiarazione della sua assenza.
All’interno della vicenda processuale, pur nella simmetricità delle posizioni, i due confliggenti spesso condividono una comune insoddisfazione. Se si ha l’opportunità di ascoltarli al di fuori del recinto giudiziario, affiora in entrambi una sensazione d’incompletezza, anche quando l’iter giurisdizionale sia giunto a conclusione. La sentenza, ad esempio, che riconosce la fondatezza delle richieste del paziente non basta a placarne la rabbia, a ridurne significativamente l’amarezza. E ciò non dipende soltanto dalla sussistenza del danno, pure risarcito; vi è un’altra componente, che si affianca alla ferita del corpo, e reclama la sua parte di “giustizia”. E’ la voce, ancora inascoltata, che vorrebbe esprimere il dolore, la tristezza della fiducia tradita, lo sconcerto e la desolazione dell’affidamento deluso. Anche la decisione giurisdizionale che riconosce la correttezza dell’operato del medico, lascia in questi un senso di frustrazione e d’amarezza. Sulla sua opera è calata una macchia, sul suo prestigio professionale si è posata un’ombra, che ne offusca anche le qualità di essere umano, e non basta una sentenza favorevole a restituirgli completamente la serenità. Non gli è sufficiente essere stato riconosciuto giuridicamente non responsabile di alcun errore, poiché sa che il suo paziente continua a nutrire rancore e sospetti nei suoi confronti.
Con questi pochi cenni sul contenzioso, si intende mettere in evidenza che nella gestione giurisdizionale del conflitto, per imprenscindibili e rilevanti ragioni di garanzia e di obiettività, la grande assente è proprio la relazione tra il paziente e il medico. In quella sede, infatti, si discute del danno, magari anche del danno esistenziale, si esplorano perizia, prudenza e diligenza nella conduzione dell’intervento, si indaga l’esistenza di nessi causali, ma non si affronta il rapporto tra i due soggetti.
La mediazione, invece, costituisce l’occasione per entrambi di incontrarsi al di là delle formalità del rito e di confrontarsi secondo modalità che permettono di esprimere gli autentici sentimenti che sottendono il conflitto. Ciò non significa abdicare necessariamente ai rispettivi ruoli, ma scoprire la possibilità di non esserne vincolati. La mediazione è, infatti, una modalità di gestione del conflitto, alternativa rispetto a tradizionali approcci quali il processo giurisdizionale, la conciliazione, la negoziazione o l’arbitrato. Il mediatore, terzo, neutrale ed equidistante rispetto ai confliggenti, non pronuncia decisioni sulla legittimità delle ragioni di questi, né propone proprie soluzioni al conflitto. Non giudica, non interpreta e non consiglia, ma accompagna. E’ un catalizzatore, che agevola il confronto, stimola l’espressione dei vissuti, garantisce l’esposizione di tutte le opinioni e consente la ripresa della comunicazione tra i soggetti. Attraverso la sua attività di ascolto e di stimolo induce le parti a realizzare come in quel contesto non valga la logica per la quale se uno è nel giusto ciò avviene necessariamente a scapito dell’altro, il quale per definizione sbaglia. Anzi, la mediazione offre ai soggetti la possibilità di riconsiderare l’evento e la relazione alla luce di una spiegazione più complessa, che non giunge dall’esterno, ma è cercata insieme, risultando, alla fine del percorso, come l’esito di una ricerca comune. Questo non implica che le parti debbano giungere alla rinuncia dei propri punti di vista, ma significa che in quel processo sono liberati dalla classica preoccupazione secondo cui “dimostrare che ho ragione significherebbe ammettere che potrei avere torto” (Beaumarchais). Viene loro data la possibilità di spiegare le proprie ragioni, senza avere il timore che le parole pronunciate possano ritorcerglisi contro. Attraverso tale processo, entrambi giungono a riconoscere e comprendere le ragioni e le motivazioni dell’altro, pur continuando eventualmente a non condividerne la visione. Laddove c’era un nemico temuto e odiato, e sempre colpevole, c’è ora semplicemente l’Altro. E si approda ad una riconsiderazione del conflitto, consapevoli che la sua origine potrebbe risiedere nell’affidamento deluso, nella percezione di un tradimento di cui il paziente si è sentito vittima. Per costui il medico era il simbolo della cura, l’unico in grado di ripristinare l’ordine sbaragliato dal processo della malattia, mentre ora è “diventato” la causa di tutti i mali. E maggiore era la fiducia, o il bisogno di avere fiducia, nel potere del medico, e più amaro è il sapore del tradimento, quando dopo la cura vi è insoddisfazione per la propria condizione fisica. E questa fiducia tradita - che così spesso induce a chiedere in tribunale un risarcimento che mai potrà indennizzare una simile ferita - può essere rielaborata all’interno della mediazione. L’ascolto reciproco delle parti, il confronto dei rispettivi vissuti, in un luogo dove entrambe scoprono gradualmente di poter rinunciare alle proprie posizioni difensive, permettono, infatti, una riduzione del vissuto di vittimizzazione per il paziente. Si può arrivare, allora, a concepire e affrontare il “danno” non come colpa dell’altro ma come eventualità. Infatti, ascoltando il suo interlocutore, il paziente, che fino a quel momento non sapeva nulla del rapporto del medico con il proprio lavoro, con la sofferenza incontrata quotidianamente, con la vita e la morte dei suoi ammalati, potrà scoprire come spesso egli sia obbligato a proteggersi e a prendere le distanze per non essere sommerso dal dolore. Il paziente, inoltre, avrà l’opportunità di acquisire la consapevolezza che il suo medico non è soltanto il guaritore-demiurgo, colui che può solo fare del bene, ma che – essendo uomo – può anche fare del “male”. Il processo di mediazione, allora, permette anche l’accesso ad una verità esistenziale che la nostra cultura tende a rimuovere: che la malattia e la morte, come la vita, sono eventi naturali che neppure la medicina più progredita può impedire. Con la rielaborazione del conflitto le parti potranno, infine, ricostruire il senso della vicenda, attribuendo ad essa un significato condiviso. Così, in virtù dell’accesso alla dimensione esistenziale dell’Altro, l’eventuale attribuzione di responsabilità avverrà esclusivamente ad opera delle parti e nei termini da esse convenuti e non in base al pronunciamento di un terzo. Infatti il mediatore siede tra i due confliggenti solo per salvaguardare la fluidità del processo, per stimolare le rispettive competenze, invitandoli ad assumere un ruolo costantemente attivo nella gestione del processo, cosicché essi percepiscano sempre più chiaramente di gestire il conflitto, anziché esserne dominati, e riacquistino il sentimento del proprio valore personale e/o professionale.
Da tutto ciò risulta evidente come l’offerta di un servizio di mediazione da parte dell’ordine professionale risponda anche all’esigenza di prevenire il contenzioso giudiziario, oltre che di colmarne le lacune, e presenti una serie di ulteriori vantaggi di portata considerevole. Tra questi vi è il ripristino della fiducia, precedentemente perduta, non soltanto verso il singolo medico, ma anche nei confronti dei servizi e delle istituzioni.
La disponibilità del medico a mettersi in discussione, incontrando il paziente in un luogo neutro, ma su un piano di parità, dove non c’è una verità che sia aprioristicamente più vera dell’altra, sarebbe un segnale importante sotto molteplici profili. Indicherebbe, infatti, una disponibilità a confrontarsi con le critiche più scomode, in una prospettiva di trasparenza, manifestando quel coraggio e quella sicurezza che i membri di altre istituzioni raramente esprimono. Qualora, poi, fosse lo stesso ordine professionale, o le singole strutture sanitarie, a sostenere dei percorsi di mediazione, la potenza di questo segnale sarebbe notevolmente amplificata ed il suo impatto risulterebbe ulteriormente potenziato.
Cos’è la mediazione?
Per quanto sia un percorso informale, soprattutto se paragonato all’iter giudiziario, il processo di mediazione ha una sua struttura, che per comodità può essere descritta attraverso un’articolazione in fasi. La prima fase consiste nel contatto con le parti. In questa fase il mediatore valuta, in seguito ad incontri preliminari separati con ciascuna delle parti, la possibilità di realizzare una mediazione tra le stesse, e quale programma in concreto applicare. Questi primi incontri hanno un valore fondamentale per l’intero processo: il mediatore, ascoltando separatamente le parti, ha il compito di raccogliere le versioni dei fatti da entrambe, di informarle e preparale alla mediazione. In questi incontri il mediatore presta una particolare attenzione ai vissuti delle parti, offrendo loro la possibilità di sentirsi “riconosciute” ed ascoltate, cercando di guadagnarne la fiducia, in vista anche della possibilità di un incontro diretto tra esse. La seconda fase consiste nell’incontro tra le parti. Qualora medico e paziente si siano dichiarati disponibili ad incontrare la controparte, e non vi siano, secondo il mediatore, motivi per rinunciare a questo tipo di approccio, si fissa una data e un luogo per far incontrare in modo diretto i contendenti[1]. L’incontro diretto, laddove possibile, costituisce sicuramente il momento principale e determinante dell’intero processo di mediazione. Il mediatore apre la sessione di mediazione spiegando quali sono i suoi compiti ed il suo ruolo, illustrando le modalità con cui si svolgerà il confronto fra le parti, e invitando le stesse a mantenere un comportamento corretto, enfatizzando la confidenzialità dell’incontro[2]. Questa prima parte viene definita fase dell’accoglienza: successivamente, infatti, all’introduzione formale da parte del mediatore, si lascia spazio alla narrazione dei fatti, dove ciascuna parte può raccontare tutto ciò che le è successo, senza limiti di tempo. In questa fase si predilige un atteggiamento di ascolto, e si può parlare di “scambio obbligatorio”[3] fra le parti, in quanto per la prima volta entrambi i protagonisti del conflitto hanno la possibilità di ascoltare la versione dell’altro.
Nella fase successiva si entra nel vivo del processo di mediazione, dando luogo ad un confronto reale tra le parti. In questo momento ciascun attore ha la possibilità di rivolgere direttamente alla controparte domande ed esprimere sentimenti, motivazioni e spiegazioni che difficilmente troverebbero spazio in un procedimento giudiziario. È questa, indubbiamente, la fase più delicata dell’intero processo per la forte tensione emotiva, ed il mediatore vi svolge un ruolo fondamentale nel far evolvere il conflitto e trasformare sia il modo di percepire che di comunicare con l’altro[4]. Uno dei suoi compiti, infatti, consiste aiutare le parti a superare quel fenomeno psicologico di indifferenziazione, per il quale le parti sono convinte di funzionare tutte in modo uguale e si attribuiscono il proprio modo di funzionare, per giungere invece ad una diversa percezione dell’altro, non “inquinata” da costruzioni mentali, “ma che rappresenti il più possibile un contatto vero con la persona al di là del ruolo di confliggente”[5]. Inoltre, come già detto, ruolo fondamentale del mediatore è quello di facilitare ed accompagnare le parti nel recuperare la comunicazione interrotta. La terza fase è costituita dalla stipulazione di un accordo[6]. Si tratta di una fase eventuale, la cui realizzazione dipende dalla volontà delle parti (alcuni modelli di mediazione, però, prevedono che il percorso si chiuda con la semplice ricostruzione di una comunicazione serena e autentica tra le parti, restando l’accordo un momento ulteriore ed esterno al processo mediatorio). A conclusione dell’incontro diretto fra le parti o degli incontri separati previsti dalla mediazione indiretta, il mediatore interroga le parti in relazione alla possibilità di una riparazione tra le stesse. Se le parti raggiungono un’intesa viene sancito un accordo tra le stesse, che può essere trascritto, nel quale le parti s’impegnano a rispettare gli impegni presi. L’accordo può prevedere delle forme di riparazione simbolica così come il pagamento di una somma a titolo di risarcimento, oppure l’accordo può avere natura mista stabilendo forme di riparazione materiale e simbolica. Tale fase può assumere altresì, la forma di una vera e propria conciliazione, ove i presupposti o le effettive conseguenze di un evento ne suggeriscano l’opportunità; anche tale fase, però, dovrà essere guidata da tecnici che siano guidati nel loro agire professionale dai principi della mediazione.





sabato 1 dicembre 2007

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